PENSIERO DI CANTADORI 2012

Convegno Educazione e Cura nel pensiero di Edoardo Cantadori
15 dicembre 2012

Ad un anno dalla morte dello storico Direttore Sanitario della Casa del Sole è stato organizzato il 15 dicembre 2012 un convegno di studio in ricordo della sua figura di Neuropsichiatra e su il suo pensiero di uomo di scienza.

Ecco uno stralcio dell’intervento del Dott. Mario Rolli, Pedagogista della Casa del Sole:

“Quando una persona ci ha lasciato e la si vuole ricordare è molto facile correre un rischio, quello di fare delle operazioni improprie, mettendo in bocca a chi non è più tra noi il nostro pensiero, contrabbandandolo per suo. Pensiamoci: è molto più facile di quanto non possiamo credere. Se vogliamo questo è un peccato veniale, ma il fatto di sapere che può accadere deve farci essere attenti e rispettosi di chi non può più esprimere il proprio pensiero, soprattutto se si tratta, come nel caso del dottor Cantadori, di una persona e di una personalità che ha segnato profondamente la natura stessa della Casa del Sole, avendo dato spessore e sostanza filosofica e pratica alla intuizione originaria di Vittorina, il Trattamento Pedagogico Globale.

A riguardo di Vittorina e di quello che non sempre in modo corretto viene definito come il “suo” metodo devo annotare che la Fondatrice della Casa del Sole sposa la linea pedagogica espressa negli anni che vanno dal 1967 al 1976 da Didattica Integrativa, la rivista diretta da Vittorino Chizzolini ed edita da La Scuola, linea pedagogica tracciata da Aldo Agazzi fin dall’editoriale del primo numero e che indica nell’approccio pedagogico globale alla disabilità la filosofia educativa da perseguire nell’educazione ai minorati.

Vittorina, che dalla sua aveva anche la formazione montessoriana, userà il termine trattamento (avrebbe potuto usare anche il termine atteggiamento) legandolo ai due aggettivi pedagogico e globale, ma inserendosi pienamente in questa traiettoria indicata dal Gruppo dei pedagogisti cattolici che si ritrovavano attorno alla Editrice La Scuola. Ed è significativa l’amicizia e la condivisione di pensiero e ideale tra Vittorina, Chizzolini e Agazzi.

Mi è sembrato opportuno fare questa premessa per chiarire che non è che Vittorina abbia “inventato” un approccio alla disabilità. La Casa del Sole semmai ha rappresentato il luogo fisico, concreto dove l’intuizione pedagogica globale del pensiero pedagogico cattolico (che negli anni ’60 - ’70 del secolo scorso aveva nella Cattolica di Brescia il cenacolo principale) ha avuto una sua traduzione in pratica, traduzione che è stata fortemente caratterizzata dalla sensibilità e dalla preparazione di Vittorina, ma che dopo la sua morte ha avuto nel Dottore colui che ne ha chiarito ulteriormente le conseguenze educativo-riabilitative, facendola dialogare con alcuni dei nuovi paradigmi filosofici e pedagogici (basti citare Damasio, Borgna, Edelmann, i neuroni specchio, la fenomenologia) che egli sentiva più vicini alla sensibilità pedagogica espressa dalla Casa del Sole.

Qualcuno ha osservato che il titolo dato a questa mattinata, contiene una parola - cura - che il Dottore non era solito usare. È vero: il Dottore era un medico che aveva sviluppato un approccio pedagogico alla disabilità e in concreto per lui il termine cura aveva senso all’interno di una espressione, quella del prendersi cura.

Nel capitolo IV del suo libro egli scrive[2]:
“L’Essere-nel-mondo è quindi essenzialmente cura:
- prendersi cura delle cose, l’essere-presso l’utilizzabile delle cose del mondo
- aver cura, l’incontro con il con-essere degli altri nel mondo.
L’incontro con l’altro è caratterizzato, nella dimensione impersonale della “pubblicità”, dalla “contrapposizione commisurante” o dalla “presa di distanza” dagli altri, dominata dalla preoccupazione di distinguersi dagli altri, mentre nelle modalità dell’aver cura, l’aver cura può realizzarsi intromettendosi al posto degli altri e sostituendosi a loro, oppure, presupponendo il loro poter essere esistentivo, aiutandoli ad essere liberi per la propria cura.
Il legame autentico è il giocare tutto in comune per la stessa causa. L’aver cura è guidato dal riguardo e dall’indulgenza”.

Indubbiamente il passo ha bisogno di essere riletto, perché non è di immediata comprensione. Il fatto stesso di essere nel mondo e di esistere ci pone in relazione con gli altri, con chi è altro da noi, nel rapporto con lui possiamo scegliere la distanza, il rifiuto, oppure la vicinanza e l’averne cura. Una madre è vicina al figlio, ne ha cura, non lo allontana, almeno di norma. Per il proprio figlio una madre ha grande attenzione e riguardo, oltre ad una dose infinta di indulgenza: gli perdona anche quello che fa di sbagliato.

Ognuno di noi per il fatto stesso di essere nel mondo si pone naturalmente in un atteggiamento di cura, di attenzione all’altro. Anche nel lavoro è così. La cuoca che prepara il cibo si prende cura di chi lo mangerà, chi pulisce un ambiente si prende cura di chi in quello spazio passerà del tempo in mezzo all’ordine e alla pulizia anziché nel disordine. Il fatto stesso che esistiamo ci mette nella condizione di esser-ci per altri, anche per chi non conosciamo, perché le nostre azioni hanno un effetto immediato su chi fa affidamento su di noi, e un effetto indiretto su chi interagisce con questi ultimi.

Questo è prendersi cura dell’altro, che significa anzitutto riconoscergli che esiste, che ha una sua identità e un suo diritto ad essere con noi nel mondo. Ma non è solo questo. È soprattutto essere responsabili di lui, del suo benessere, della sua crescita, del suo apprendere, del suo aumentare in autonomia e in libertà. Prendersi cura è avere a cuore, provare interesse e coinvolgimento per l’altro, desiderare per lui il bene e la felicità.

Nel nostro lavoro in particolare, come diceva Giorgio Moretti, viviamo la contraddizione di prenderci cura dell’altro sapendo che quello che facciamo non lo potrà guarire. Curare senza guarire è una prospettiva che accomuna diverse figure professionali e che può risultare frustrante se non viene vista staccandola da noi, dal nostro egocentrismo, dal senso di onnipotenza che possiamo alimentare, nella prospettiva del rendere significativa l’esistenza della persona di cui ci prendiamo cura.

E qui ricordo l’accento che Cantadori poneva sulla distinzione tra bisogni e desideri. Egli ci ricordava che mentre i primi accomunano tutti noi in quanto esseri umani, i secondi sono diversi e ciascuna persona coltiva i propri; sono i desideri che danno colore e sapore alla nostra esistenza, che la rendono degna di essere vissuta, che dicono agli altri chi siamo noi, cosa amiamo, come sentiamo e viviamo la nostra esistenza. È il grido che ciascuna persona può lanciare al mondo per dire “io esisto e sono”, un grido che ai nostri ragazzi è precluso se, anche attraverso il nostro impegno, non siamo in grado di farlo uscire.



[2] Cfr. Cantadori E., La persona disabile, Mc Graw Hill, 2002
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